venerdì 23 aprile 2010

Gli italiani e i lavori sottopagati - post dalla rete



Non esistono lavori che gli italiani non vogliono più fare. Esistono lavori sottopagati. Esistono tecnologie obsolete. Esistono situazioni di illegalità. Riprendo i quattro esempi: mungitore, muratore, colf e badante. Il mungitore ha un contratto? Quanto viene pagato? Ci sono aziende automatizzate (a un costo ragionevole, non è roba da Nasa) nelle quali le mucche vanno a mungersi da sole. Il muratore deve fare un sacco di gavetta. Ci sono imprese edili che ti assumono con la prospettiva di impiegarti fino alla pensione? Vengono rispettate le regole di sicurezza? La colf e la badante, altri esempi di lavori allo sbando. Esiste un certificato professionale per la collaboratrice domestica, la badante? È tutta gente che si improvvisa un lavoro. In Cina c'è gente che costa ancora meno, se ci fai caso quei lavori sono impossibili da esportare. Portiamo le vacche in Cina? Costruiamo la villetta in Cina e la portiamo qua col camion? Spediamo la vecchietta in Cina e ci facciamo passare l'aspirapolvere via internet da una cinese? Analizzare la situazione e ricavarne tesi come quella che gli italiani sono troppo viziati e mollaccioni per accettare certi lavori è offensivo, oltre che semplicistico. Il fatto che ci siano persone che accettano comunque lavori inaccettabili ha come risultato che questa situazione non evolverà. Sono tutte scuse per evitare adeguamenti a necessità reali e giustificare arretratezza, illegalità e precarietà. Noi cerchiamo schiavi, da impiegare possibilmente in nero e, per mettere una toppa ipocrita alla coscienza, chiediamo ringraziamenti perché stanno meglio di come starebbero a casa loro. Se vogliamo che gli italiani facciano o tornino a fare certi lavori non dobbiamo adattare gli italiani al lavoro ma il lavoro agli italiani.
Raffaele Birlini

lunedì 19 aprile 2010

Crisi in Lombardia - articolo



Cassa integrazione, in marzo aumento del 48,7%.
«Dall’inizio dell’anno licenziati 16 mila dipendenti»

MILANO - Nessuno si aspetta buone notizie dal mercato del lavoro. Almeno per il 2010. I problemi sono: quanto profonda è la crisi? Quanto distante è la risalita? Dai dati sulla cassa integrazione autorizzata a marzo in Lombardia non arrivano risposte in grado di risollevare il morale. Continua ad aumentare la cassa integrazione autorizzata in regione. E i pochi che hanno trovato lavoro nel 2009 si sono dovuti accontentare in tre casi su quattro di un’occupazione a termine.

Boom della cassa. Partiamo dalla cassa integrazione. Secondo un’elaborazione Uil su dati Inps, la somma di cassa integrazione ordinaria e straordinaria autorizzata in regione è passata dai 30 milioni di ore di gennaio ai 28 milioni di febbraio per risalire fino ai 42 di marzo. Più 48,7% nell’ultimo mese. Il balzo in avanti è da imputare soprattutto alla cassa straordinaria (quella legata alle crisi più serie). La cigs, infatti, è aumentata in un mese del 61,5%. «Secondo una prima stima, sono circa 200 mila i lavoratori coinvolti dalla cassa in regione», fa il punto Claudio Negro, della segreteria regionale Uil. «Il dato positivo della faccenda è che mentre la cassa cresce diminuisce la mobilità, cioè i licenziamenti tout court — continua il sindacalista —. In ogni caso ci aspettiamo che la cassa integrazione resti a livelli elevati almeno fino alla fine dell’anno ».

Sedicimila licenziati. A proposito di licenziamenti, tra gennaio e marzo 16.200 lombardi hanno perso il posto e si sono iscritti alle liste di mobilità. Il 16% in più rispetto al corrispondente periodo del 2009, il 66% in più rispetto a gennaio-marzo 2008. Questi dati riguardano solo licenziamenti per riduzione del personale di persone con contratto a tempo indeterminato. Non si tiene conto, quindi, dei contratti a termine non rinnovati. Da gennaio 2009 al 12 aprile le domande di cassa in deroga (quella riservata alle piccole imprese) in Lombardia sono state 24.342, i lavoratori coinvolti 160 mila per un totale di oltre 103 milioni di ore richieste. Segno che la crisi continua a mettere a dura prova anche la piccola impresa.

Posto fisso cercasi. In un momento così delicato chi perde il lavoro se va bene si ricolloca a tempo determinato. A certificare come il posto fisso stia diventando una chimera sono i dati dell’Agenzia regionale del lavoro. Nel 2009 in Lombardia il 25% degli avviamenti è stato a tempo indeterminato (uno su quattro) contro il 44% di contratti a termine, il 14% di lavori a progetto, il 12% di lavori in affitto. Ridotti ai minimi termini gli avviamenti con il contratto di apprendistato: solo il 3% del totale.

L’appello delle imprese. «Non mi stupisce che gli imprenditori centellino le assunzioni a tempo indeterminato— osserva Ambra Redaelli, presidente comitato piccola industria di Confindustria Lombardia —. In un momento così delicato si misura con attenzione la lunghezza del passo. D’altra parte in tempi non sospetti avevamo detto che l’onda lunga della crisi sull’occupazione sarebbe arrivata nel 2010». Secondo Redaelli i piccoli fanno i conti con un paradosso. Hanno fatto sacrifici pur di non licenziare. E adesso le banche centellinano il credito proprio perché l’impresa deve farsi carico degli stessi costi del personale di due anni fa quando il giro d’affari è drasticamente diminuito. Confindustria Lombardia dice chiaro che «le imprese hanno bisogno di essere sostenute e si aspettano molto dalle politiche industriali della nuova giunta Formigoni». Oltre al credito, a preoccupare i piccoli è il costo delle materie prime. «Gli aumenti mettono in difficoltà le imprese — conclude Redaelli —. Ma sono anche il segno che il cancro della speculazione non è ancora stato sconfitto ».

Rita Querzé
fonte: Corriere della Sera

lunedì 12 aprile 2010

Lettera a Tiraboschi - post dalla rete



Gentile dott. Tiraboschi,
sto seguendo con molto interesse il vivace dibattito tra Lei, il professor Ichino e gli economisti de La Voce. Non nego di essere idealmente affine ai suoi interlocutori più che a Lei, anche se trovo sensate e condivisibili molte delle Sue obiezioni (nonostante la sensazione che la proposta Ichino, a differenza di quella Boeri-Garibaldi, già le consideri e in qualche modo vi dia risposta).
Non sono un giuslavorista, quindi non entro ulteriormente nel merito delle questioni tecniche e giuridiche. Sono però un lavoratore a progetto, uno dei moltissimi laureati della mia generazione che hanno un’occupazione tramite questa forma contrattuale. Mi sento pertanto “parte in causa” del dibattito in corso ed è con riferimento alla mia situazione concreta (che è poi quella di molti altri divenuti maggiorenni più o meno nell’anno dell’approvazione della riforma Treu) che Le scrivo la presente.
Premetto di essere un co.co.pro. anomalo, come lo sono del resto quasi tutti i co.co.pro che conosco: sono più o meno all’ottavo contratto a progetto consecutivo, al quarto anno di lavoro presso la prestigiosa struttura privata presso la quale svolgo le mie attività con orario 9.30-18.30, 5 giorni a settimana, in maniera subordinata rispetto “al mio capo” e occupandomi contemporaneamente di una pluralità di progetti, solitamente diversi da quelli formalizzati nella lettera d’incarico.
Sono fermamente convinto che, quando tutto va bene, il contratto a progetto possa essere anche una discreta opportunità: soprattutto, ha ridotto le barriere d’ingresso, quindi ho potuto iniziare a lavorare senza selezioni particolarmente impegnative e dimostrando sul campo il mio valore e le mie capacità.
Ciò nonostante, in questi quattro anni ho vissuto da lavoratore di serie B. Non tanto per quel che facevo (lavoro esattamente analogo a quello dei dipendenti), quanto per una serie di altri fattori, economici e non solo:
1. se il netto mensile è paragonabile a quello che avrei da dipendente, non ho diritto né possibilità di contrattare buoni pasto, tredicesima, trattamento di fine rapporto, premi di produzione etc;
2. in una situazione difficile quale quella attuale, tutti noi “a progetto” siamo i lavoratori più vulnerabili. La Direzione non ha provveduto a nessun licenziamento (la cassa integrazione non è contemplata), ma in compenso ha drasticamente ridotto il numero di dipendenti a progetto (o meglio, di persone che lavoravano con quelli che, fino agli inizi della crisi, definivamo “contratti a rinnovo indeterminato”), semplicemente smettendo di rinnovare tali contratti. Il ridimensionamento subìto in due anni dalla struttura è impressionante. Eppure, proprio a causa delle differenze contrattuali, non ha finora seguito una logica razionale e meritocratica, non si è trasformato in un’opportunità per migliorare il funzionamento complessivo: è più facile e meno disdicevole non rinnovare un contratto, piuttosto che licenziare qualcuno; 3. la differenza è che i lavoratori con contratti non rinnovati sono finiti nella disoccupazione a zero euro, mentre i dipendenti (oltre al TFR) avrebbero avuto accesso ad ammortizzatori sociali decisamente più vantaggiosi;
4. tempo fa avevo inviato il mio curriculum ad un’azienda “concorrente”.
Sono stato immediatamente richiamato dal selezionatore risorse umane ed abbiamo parlato a lungo, fin quando m’ha chiesto “Quindi Lei è un dipendente…”. Inavvertitamente, avventatamente, ho risposto che “Beh, in realtà lavoro con un contratto a progetto..” La telefonata si è interrotta pochi secondi dopo e non ho più avuto sue notizie;
5. insieme a mia moglie (precaria più di me, anche lei laureata con 110 e lode, lei in un ambito d’eccellenza quale quello delle biotecnologie) paghiamo 1.000 euro al mese d’affitto, perché col contratto a progetto tutto posso fare fuorché pensare all’idea d’un mutuo. Le Poste italiane si son rifiutate di farmi una carta di credito, che pure mi serviva, perché avevo un contratto a progetto. Per un acquisto impegnativo ho recentemente chiesto al negoziante di poter ricorrere al credito al consumo, ma siccome il mio ennesimo contratto scade entro sei mesi non è stato possibile e ho dovuto pagare “tutto e subito”.
Che dirLe? La sensazione forte è che tutto il diritto del lavoro e il welfare di questo Paese siano tarati su un modello che non esiste, su un sistema fondato sull’industria manifatturiera di medio-grandi dimensioni.
Non è questa l’Italia. L’Italia è il Paese delle micro-imprese con meno di 10 dipendenti, è il Paese delle partite-iva e sempre più è il Paese dei contratti a progetto (ah, dimenticavo: durante il Governo Prodi hanno cercato di convertirci da parasubordinati a partite iva, ma ci siamo fermamente opposti: a tutto c’è un limite!).
Non so quale sia la soluzione. L’idea di denunciare il mio datore di lavoro non la prendo neanche in considerazione, ovviamente: non ho intenzione di rovinarmi la vita. Sperare nella sua benevolenza, in un’assunzione octroyée, è altrettanto fuori discussione. Essere veramente a progetto, lavorando per più committenti, non è fattibile. Per uscirne non mi resta che sperare in un’iniziativa legislativa. Una proposta che parta da una considerazione banale banale: per la maggioranza degli italiani l’articolo 18 non esiste, come non esiste la cassa integrazione, come non esistono i sindacati. Esiste solo la flessibilità, una flessibilità senza prospettive e senza tutele, che ci spinge a dare il massimo ma soltanto perché se mettiamo un piede in fallo rischiamo di cadere nel baratro.. e comunque il rischio che nonostante tutto qualcuno ci spinga giù è sempre attuale.
Io vedo in un modello di contratto unico la soluzione possibile. Però forse sono ingenuo e poco informato, magari esistono delle alternative (non lo so, non credo: perché, per lo stesso lavoro, devo avere un trattamento differente?). L’obiettivo condiviso, comunque, non può che essere quello di pervenire ad un sistema di flexsecurity. Per favore, lo chiedo a Lei, a Ichino e a tutti gli altri eredi di Biagi, di D’Antona e dei tanti giuslavoristi che hanno pagato con la vita e continuano a rischiare per migliorare un minimo il diritto del lavoro in questo Paese: sedetevi intorno a un tavolo, seppellite l’ascia di guerra e i pregiudizi ideologici e trovate un compromesso, una risposta ai problemi reali di quest’assurda Repubblica, che dovrebbe essere fondata sul lavoro.

Autore: M.M.V.
Fonte: Unità.it

Generazione a pianificazione zero - post dalla rete



Generazione delta X - G.
Traduzione: generazione a incognita variabile, basata sul capitale dei genitori. Vivo questa equazione matematica sulla mia pelle: nato nel 1976, studi e università, piccoli lavori, assunto con un ottimo incarico e a tempo indeterminato presso una società municipalizzata, licenziato anni dopo al primo cambio di amministrazione: disoccupato con una compagna dolcissima accanto, una casa da mantenere e un figlio in arrivo. Immediatamente cerco lavoro ovunque, consegnando decine di curriculum. La risposta è sempre la stessa: c'è la crisi, non assumiamo. A volte invece è: non ha esperienza in questo settore. Certo che non ce l'ho. Se tutti pretendono dipendenti già esperti, o si nasce già con un'esperienza specifica geneticamente indotta, o si muore senza averla mai potuta fare.
Morale: ho una famiglia tutta mia, ma sopravvivo solo grazie all'aiuto/contributo dei genitori. Tremendamente umiliante e al tempo stesso una fortuna grandissima, un privilegio. Posso aver commesso errori o ingenuità, ma è indiscussa la mia voglia di lavorare, pari solo al desiderio fortissimo di indipendenza. Sì, vorrei passare completamente dallo status di figlio a quello di padre, e rimenere legato ai miei genitori esclusivamente dal grande amore e riconoscenza che ho nei loro confronti, ma pare che tutto questo sia ancora impossibile, se non addirittura utopistico. Chiedete a un trentenne come vede il futuro: vi risponderà che si sente cieco. Ignoro cosa mi succederà tra un mese, figuriamoci tra un anno o dieci.
Generazione a pianificazione zero. Ecco cosa siamo.

Giuseppe Calandrini