venerdì 26 febbraio 2010

Colloqui di lavoro: di che segno sei? - post dalla rete



Vogliamo raccontarvi dell’ultima frontiera del colloquio di lavoro, settore commercio (premesso che prima di riderci, abbiamo pianto). Tralasciamo di tediarvi parlando delle difficoltà in cui versa il settore, della precarietà del lavoro e della quasi schiavitù delle commesse, della quale categoria facciamo parte da 25 anni, mentre vogliamo soffermarci brevemente sulle odierne modalità di selezione del personale.Recentemente abbiamo sostenuto qualche colloquio (chi perché è rimasta a piedi, chi perché ha le ore contate) presso alcune aziende, anche di rilevanza nazionale; ebbene, noi ci aspettavamo domande serie relative alla nostra professionalità, all’anzianità di servizio, alle nostre aspirazioni, magari alla conoscenza di qualche lingua straniera. Invece, ahinoi, in più di un'occasione ci siamo sentite domandare: «Scusi, ma lei di che segno è? Sa, è importante».
«Roberta, capricorno». Si è sentita rispondere che il suo segno è fonte di problemi, perché troppo testardo. Elena, cancro, (io): «Ha un segno ricco di polemica e permalosità».
Morale: le faremo sapere.
Non avreste qualcuno in grado di rilasciarci un certificato, ovviamente falso, con il segno zodiacale perfetto? Scherzi a parte, ci rivolgiamo a voi certe che non abbiate versato il cervello all’ammasso del Grande Fratello, sperando che magari, sentendone parlare, qualcuno riesca ancora a vergognarsi.
Vogliamo solo lavorare. Seriamente.Come abbiamo fatto finora.
Un saluto da Verona.
Elena E. Melotti

martedì 23 febbraio 2010

Licenziata dopo il parto - articolo



«Io, manager tradita dall’azienda. Dopo il parto costretta a licenziarmi»

Storia di una bocconiana. Convocata dal direttore appena rientrata: «Grazie, non ci servi più»«Buongiorno dottoressa. Il direttore generale la aspetta nel suo ufficio». La voce della segretaria lasciava intuire un certo distacco. Strano. Torni dalla maternità, di solito i colleghi ti accolgono con un sorriso e mille domande. Come va la piccola? Piange? Come ti sei organizzata a casa? Stefania Boleso, 39 anni, marketing manager di Red Bull Italia (multinazionale austriaca presente in oltre 180 Paesi, ndr) non ha voluto ascoltare quel brivido di disagio. Come uno sportivo che si è preparato al meglio, dopo dieci mesi di maternità era stanca di immaginare la gara imminente. Baby sitter assunta a tempo pieno, marito pronto a dare una mano nelle emergenze: meglio scendere in campo e giocare. E allora via, dal capo. «Buongiorno Stefania. Scusa ma... Per motivi di costi la tua posizione non è più prevista». Tradotto: devi andartene. Con le buone o con le cattive. «Non dimenticherò mai quell’attimo — racconta adesso Stefania Boleso —. Erano le dieci del mattino del 30 settembre scorso. E’ stato come essere lasciata dal primo amore».

Una firma per cancellare oltre dieci anni di lavoro e un percorso professionale da manuale: laurea in Bocconi con 110, un anno e mezzo in una multinazionale americana (Sarah Lee) «per farmi le ossa» e poi l’ingresso in Red Bull quando il marchio in Italia era sconosciuto e la filiale tutta da costruire. Oggi la bibita è famosa anche nel nostro Paese. E l’azienda in Italia dà lavoro a 150 dipendenti. «Mi hanno fatto una proposta economica. Ho rifiutato—racconta oggi Boleso davanti a una tazza di caffè —. Ho deciso di tenere duro per orgoglio. Gestivo un budget di 18 milioni di euro ed ero il punto di riferimento di 28 persone: tutta l’area marketing. Durante la maternità ero sempre rimasta in contatto con l’azienda. Per dire, mia figlia doveva nascere il 25 dicembre e io il 18 ero a una riunione. A quel progetto ho dato l’anima. Invece l’azienda non mi ha nemmeno messa alla prova. Come si sono sbagliati. Io ci sarei riuscita a mettere insieme la famiglia con il lavoro. Avrei dato il sangue pur di farcela».

Dopo il «gran rifiuto», per Stefania Boleso sono arrivati momenti difficili. «Sono stata spostata in un locale a pian terreno riadattato a ufficio, distante cinque piani dal resto dell’azienda. Mi hanno tolto la responsabilità del marketing. In teoria avrei dovuto lavorare con due colleghe. Peccato che entrambe fossero in maternità. Insomma, ero sola». Boleso ha resistito poche settimane. «Un giorno mi è venuto un attacco di panico, ho creduto di morire. Al pronto soccorso mi hanno detto che stavo rischiando l’esaurimento. Alla fine ho mollato. Il 19 dicembre ho firmato la resa. Ho scambiato i miei diritti con una buonuscita. Non avevo alternativa: dopo aver perso cinque chili e la serenità, non mi sono sentita di imporre altre tensioni alla mia famiglia». Che cosa farà adesso, Stefania? «Questa esperienza mi ha cambiata — risponde la manager —. Ieri criticavo chi dava meno del 110% sul lavoro. Adesso sto cercando di attribuire un nuovo senso agli ultimi dieci anni. Ho deciso di ripartire raccontando questa storia. "Guarda che poi nessuno ti offrirà più lavoro", mi ha detto qualcuno. Il rischio c’è. Ma credo vada corso. Quantomeno per aiutare mia figlia a vivere in un mondo migliore».

Rita Querzé
Fonte: Corriere della Sera.it

martedì 16 febbraio 2010

Cornuti e mazziati - post dalla rete




Siamo un gruppo di ragazzi che lavorano a pochi metri dalla sede del "Corriere della Sera", presso la Mediateca Santa Teresa. Sentendo i recenti interventi sul tema dei bamboccioni ci siamo sentiti alquanto "cornuti e mazziati". Cornuti perché come molti dei giovani in questo paese percepiamo salari da fame (un dipendente full-time in questa struttura è fortunato se supera gli 800 euro al mese, il tutto dopo 6 anni di contratti rigorosamente a progetto di tutti i tipi), mazziati perché veniamo derisi sulla stampa e trattati come dei poveri incapaci. Si parla tanto di questi bamboccioni, ma poco è stato fatto sul piano politico (a destra come a sinistra) per risolvere la causa principale del problema, gli stipendi bassi (siamo agli ultimi posti in Europa per questo, con buona pace di chi dice che in Italia la crisi l'abbiamo retta meglio che altrove) e il precariato. Sicuramente ci sono giovani che restano a casa con i genitori per pigrizia e immaturità, ma la maggior parte è costretta a farlo per cause di forza maggiore. Malgrado ciò, molti affrontano lo stesso la vita con gli scarsi mezzi a disposizione. Alcuni di noi qui in Mediateca vivono da soli senza chiedere l'aiuto delle famiglie, e chi non è andato via (magari perché ha un genitore solo) collabora attivamente al budget familiare. Si potrebbe emigrare, ma non tutti fra di noi hanno avuto la possibilità di farlo. Possiamo accettare tutto nella vita, il tradimento delle generazioni che ci hanno preceduto, il totale menefreghismo verso i giovani di oggi e il fatto di doversi arrangiare da soli. Ma essere presi in giro e derisi in pubblico no, questo non lo possiamo tollerare, e un po' di rispetto lo pretendiamo, almeno questo. Buona giornata.

I Tutors Della Mediateca Santa Teresa

venerdì 12 febbraio 2010

Telelavoro, perchè da noi no ? - post dalla rete



Inviato da "Dalikos" al forum di ViviMilano

Prendo spunto dall'ultimo rapporto Eiro, un'osservatorio UE sul lavoro, nel quale analizzando il telelavoro in Europa il nostro paese risulta al fondo della classifica nell'applicazione di questo strumento.

Per gli interessati i dettagli al seguente link http://www.eurofound.europa.eu/eiro/studies/tn0910050s/tn0910050s.htm

L'area metropolitana di Milano e hinterland e' congestionata dal traffico, l'inquinamento di conseguenza sale fino a superare i limiti di tollerabilita'. Molti di noi fanno un lavoro che potrebbe benissimo essere svolto da casa, supportato da adsl, chiavette wireless, etc, perché allora non indire qualche giorno alla settimana il telelavoro?

Dovrebbe essere addirittura incentivato dalle istituzioni, invece trova tanti ostacoli.

Ma chi e' che finora ha ostacolato lo sviluppo di questo modo di lavorare ?

Se volete seguire la discussione:
http://forum.milano.corriere.it/milano/12-02-2010/telelavoro-perche-da-noi-no-1476683.html

Giornata dell'orgoglio bamboccione: perchè no ? - post dalla rete



Prendo spunto dal post di Caterina pubblicato sul blog di Beppe Severgnini...

Sarebbe davvero un idea valida fondare una "giornata dell'orgoglio bamboccione".

Continua a farmi piacere che il tema, in questi giorni, sia tornato alla ribalta.

Fonderei una Giornata dell'orgoglio bamboccione

Buongiorno Bsev, Tex e Italians,
in questi giorni ho letto molte lettere sul tema bamboccioni, e - dopo lunga e penosa riflessione - sono giunta alla conclusione di essere una bambocciona anch'io. Questo nonostante lavori e viva fuori casa da sedici anni, e nel frattempo mi sia aggiudicata (nell'ordine) un lavoro, un marito e quattro figli. Eppure rientro nella categoria honoris causa, perché senza mamma e suocera credo proprio che non ce la farei. Come molti amici e conoscenti coetanei, vivo una vita serena grazie al contributo di mia madre e di mia suocera, che certo non lavano e stirano per noi, ma si sono occupate e si occupano dei miei figli lasciandoci lavorare tranquillamente, e contribuiscono anche economicamente all'educazione dei pargoli, pagando corsi di sci e gite all'estero che altrimenti non ci saremmo potuti permettere. Per la nostra generazione, il supporto e l'apporto dei genitori pensionati resta troppo spesso fondamentale, soprattutto in caso di difficoltà (quanti separati se la cavano solo grazie a mamma e papà? Non è una critica, solo una constatazione). L'Italia del 2010 è una repubblica fondata sui pensionati; e per quanto un genitore aiuti sempre con il cuore, per chi ha passato i 40 anni, e ne ha speso 20 a studiare, accettare l'aiuto è a volte davvero umiliante.
Allora faccio outing e lo ammetto: sono una bambocciona anch'io. Se non fosse così deprimente, fonderei un Club bamboccioni senior e organizzerei una Giornata dell'orgoglio bamboccione.
Saluti,


Caterina Grando

Fonte: http://www.corriere.it/solferino/severgnini/10-02-06/05.spm

giovedì 11 febbraio 2010

C'è bisogno di una rivoluzione - articolo

Beppe Severgnini, dal suo blog

E io cosa dico ai ragazzi della scuola di giornalismo?
E voi cosa dite ai vostri figli e ai vostri nipoti? E noi cosa diciamo a chi guarda l'Italia da fuori, e pensa che siamo lungimiranti come talpe in una notte di nebbia? Da incorniciare il pezzo di Pietro Ichino sul Corriere di lunedì: «Nessuno pensa al welfare dei figli». Riassumo: il lavoro di serie A non c'è (la imprese ne sono terrorizzate: è più facile separarsi dal consorte che dal dipendente). C'è solo lavoro di serie B («a progetto» o comunque a termine) e lavoro di serie C (stage semigratuiti senza formazione, assunzione con partita Iva per mansioni professionali, d'ufficio, di cantiere, di negozio, di call center, di magazzino). Mezzo milione d'italiani che ha perso il lavoro nei mesi scorsi - la crisi non era solo «psicologica», Capo? - aveva impieghi di questo tipo: serie B e serie C. Se quest'ultima vogliamo chiamarla «Lega Pro», come nel calcio, possiamo farlo: ma non è una gran consolazione.
Ovviamente - questo Ichino non l'ha scritto, ma lo sa - la nostra società è basata sul lavoro di serie A: dall'autostima al mutuo in banca, poco si ottiene con un contrattino a progetto. Che avrebbe dovuto essere un mezzo, secondo la legge Biagi, non un fine. Ma si sa come vanno le cose: fatta la legge (dagli adulti), trovato l'inganno (dei giovani). Non solo. L'infausto 3+2, l'abitudine al «fuori corso» e la microuniversità sotto casa - spesso un'inutile baronia, gradita solo ai docenti modesti e ai genitori egoisti - hanno svalutato la laurea. Negli ultimi anni, la differenza di stipendio tra un lavoratore laureato e un diplomato è diminuita del 6,2%. Brunetta dice: «Dietro la difesa dei padri a scapito dei figli c'è la difesa dell'esistente contro il cambiamento, della conservazione contro l'innovazione». Ichino lo invita a passare ai fatti, lasciando perdere le battute da talk-show. Io non sono dotto come il professore né polemico come il ministro, ma chiedo a quest'ultimo: scusi, ma il suo collega Tremonti non va cantando la lode del posto fisso? E poi: se il lavoro è un'emergenza, perché avete passato mesi ad accastastare proposte della giustizia, invece di lanciarvi in una rivoluzione del lavoro?
Perché di questo c'è bisogno: una rivoluzione. La sinistra non ne è capace: provateci voi. Occorre un sistema che unisca flessibilità e sicurezza, e rimetta in moto la macchina italiana. I nostri stipendi netti sono del 32% inferiori alla media Ue e stanno al 23° posto nella classifica Ocse dei 30 Paesi più industrializzati. Ovviamente: il posto fisso, in Italia, si paga. La sicurezza è talmente rara che il prezzo è salito alle stelle. Certo, c'è chi in tutto questo ci sguazza. Ricordiamo che nel 2009 solo 149 mila contribuenti (tre su mille!) hanno dichiarato un reddito lordo sopra i 150 mila euro. Tra questi gli autonomi, i professionisti e gli imprenditori sono solo 20 mila. Ma questo è un altro film. Se il ministro Brunetta volesse farcene la recensione, gliene saremmo grati.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Quoto a pieno l'intervento... questa volta lo riporto in "rosso" perché è il colore che Severgnini usa sul suo blog.

Continuiamo a parlarne !!!

Luca

mercoledì 10 febbraio 2010

Le risposte di Brunetta non tardano mai ad arrivare - Luc@ + articolo



"Si tratta di assicurare un reddito dignitoso e sufficientemente stabile e non un posto fisso".
Renato Brunetta docet...
(http://www.corriere.it/politica/10_febbraio_10/brunetta_737ed186-160f-11df-9e42-00144f02aabe.shtml)
Peccato che per acquistare una macchina, ottenere un prestito, accendere un mutuo occorra "il posto fisso". Ma allora, diciamo che occorre "rinnovare tutto" per rinnovare niente ? Il reddito non mi è mancato, lavoro da 12 anni senza interruzioni e ho cercato di cambiare in continuazione nella speranza di essere assunto. Non ce l'ho ancora fatta, ma come si dice, chi l'ha dura la vince ? No ?

Le considerazioni arrivano dopo l'articolo di lunedì 8 febbraio scritto da Pietro Ichino sul Corriere
(articolo da incorniciare che riporto per intero ndr):
http://www.corriere.it/economia/10_febbraio_08/welfare_dei_figli_a548d8dc-1480-11df-95c9-00144f02aabe.shtml?fr=correlati

Un lusso anche i contratti di serie B Nessuno pensa al Welfare dei figli

LETTERA SUL LAVORO

Un lusso anche i contratti di serie B Nessuno pensa al Welfare dei figli

Caro Direttore, il ministro Renato Brunetta ha molta ragione quando avverte che il diritto del lavoro, e in particolare l'articolo 18 dello Statuto del 1970, oggi si applica soltanto ai padri e non ai figli. Gli italiani, però, hanno diritto di sapere che cosa il ministro propone seriamente— e non soltanto con una battuta in un talk show —per superare il regime di apartheid che penalizza la nuova generazione di lavoratori.

È vero: da anni, ormai, a un ventenne o trentenne che cerca lavoro in Italia le aziende offrono di tutto, tranne che un rapporto di lavoro regolare. E anche un rapporto di lavoro di serie B —«a progetto», o comunque a termine— è già considerato, in molte situazioni, un privilegio difficilmente ottenibile, rispetto alla «normalità», costituita dal lavoro di serie C: stage semigratuiti in azienda tutto lavoro e niente formazione, assunzione con partita Iva per mansioni d’ufficio, di cantiere, di negozio, di call center, di magazzino, che erano tradizionalmente considerate come lavoro dipendente. Case editrici in cui da anni non si assume più un redattore o un correttore di bozze con un contratto normale di lavoro dipendente; case di cura private che formalmente non hanno alle proprie dipendenze neanche un solo medico, un solo infermiere, un solo barelliere: tutti a partita Iva, oppure soci di cooperative di lavoro a cui il servizio viene appaltato.

Stessa musica nel settore pubblico, dove ormai domina sempre più diffusamente l’«esternalizzazione» delle funzioni mediante cooperative e altri appaltatori, che utilizzano ogni forma di lavoro atipico. Accade pure che dopo un periodo più o meno lungo di anticamera anche un ventenne o trentenne finisca coll’ottenere l’agognato posto di lavoro stabile regolare; ma il punto è che il datore di lavoro ha di fatto la possibilità di scegliere che il lavoratore, anche se sostanzialmente dipendente, resti escluso dalla protezione regolare per decenni. In altre parole: il diritto del lavoro sta perdendo la sua natura di standard minimo di trattamento universale, per assumere la natura di un ordinamento eminentemente derogabile: chi vuole lo applica e chi non vuole no. Naturalmente, poi, quando viene la bufera, a pagare per primi sono sempre i non protetti: i 500 mila lavoratori italiani che hanno perso il posto nei mesi passati di recessione sono ovviamente quasi tutti di serie B e C. Dunque: il ministro fa bene ad aprire gli occhi su questa realtà, a riconoscere che il nostro mercato del lavoro e il nostro sistema di protezione sociale non sono affatto «i migliori del mondo», come egli stesso ci ha detto solo pochi mesi or sono. Ma deve anche dire quale è la sua diagnosi del fenomeno e quale la terapia che propone. Una cosa è certa: il problema non è soltanto di controlli e di repressione delle frodi. Controllo e repressione servono quando la violazione o elusione delle regole è un fenomeno marginale; quando invece— come oggi accade per il nostro diritto del lavoro —violazione ed elusione diventano un fatto normale su larga scala, è l’ordinamento stesso che deve essere rifondato. La disciplina italiana del rapporto di lavoro regolare è vecchia ormai di oltre quarant’anni. È stata scritta quando non esistevano né i computer, né Internet, ma neppure i fax e le fotocopiatrici; quando era normale che un giovane entrasse in un’azienda con la prospettiva di restarci per trenta o quarant’anni svolgendo la stessa mansione, più o meno con gli stessi strumenti e le stesse tecniche. Oggi il tempo di vita di una tecnica produttiva (ma anche di un prodotto o di un materiale) non si misura più in decenni, ma in anni o addirittura in mesi; le imprese nascono e muoiono con un ritmo incomparabilmente più rapido rispetto ad allora.

Così stando le cose, la sicurezza economica e professionale dei lavoratori non può più essere affidata al modello del «posto fisso». Ed è in larga misura inevitabile che le imprese facciano di tutto per eludere, nelle nuove assunzioni, una disciplina della stabilità del lavoro, come quella dettata dall’articolo 18 dello Statuto del 1970, che condiziona lo scioglimento del rapporto di lavoro per motivi economici od organizzativi a un controllo giudiziale che può richiedere due, quattro o sei anni; e al Sud anche otto o dieci. La soluzione, allora, non è togliere l’articolo 18 ai padri, ma riscrivere il diritto del lavoro per i figli, per le nuove generazioni; in modo che esso torni capace di applicarsi davvero a tutti i rapporti che si costituiranno da qui in avanti. E garantire davvero a tutti non l’impossibile «posto fisso», ma quella protezione contro le discriminazioni e quella rete di sicurezza nel mercato, da cui oggi la nuova generazione dei lavoratori italiani è per la maggior parte esclusa.

di Pietro Ichino
© RIPRODUZIONE RISERVATA




lunedì 8 febbraio 2010

Se l'agenzia dice no... - lettera dalla rete



Diploma di terza media: e l'agenzia dice no

Stamattina ho ricevuto l'ennessimo "NO" da parte di un'agenzia web perché alla voce "Titoli di studio" del mio curriculum c'è scritto "Terza media". Non ho potuto finire il liceo per problemi di salute, ma non ho mai smesso di studiare per conto mio. Mentre i miei amici si diplomavano ed entravano nel mondo del lavoro o dell'università, io ero tutta concentrata a uscire dai miei problemi (accompagnati da madre e prozia invalide), quindi non solo non ho un diploma, ma neanche esperienze lavorative da mettere nel Cv. Bene, mi dissi tre anni fa, mi inventerò un lavoro. Ho comprato un Pc e ho cominciato a smanettare con la programmazione web. Sono diventata una webmaster (anche se mi definisco smanettona). Ieri ho risposto ad un annuncio - decisamente sgrammaticato - di un'agenzia che cercava giovani webmaster nella mia zona. Tutto è andato bene finché non hanno letto la voce che ho citato sopra. Io, prima di lasciare, frequentavo il Liceo Classico. Indirizzo di studio che il Pc te lo fa sognare, quindi, anche se mi fossi diplomata, non avrei avuto nessuna nozione sulla programmazione web. Non è difficile intuire che il diploma nel mio ambiente serve a poco. Ma nonostante ciò, il no è arrivato asciutto e senza speranza. Ora sono piena di interrogativi orfani di risposte. Mi viene da pensare che non importa se io sappia il perché si mette l'apostrofo ad un "po'"invece che l'accento, non importa se io sappia il significato della parola "etiologia", ad esempio, l'importante è che qualcuno abbia certificato la mia sapienza su un pezzo di carta anticato e pieno di lettere ricciute. La metà dei miei amici è laureata, tutti di loro non sanno distinguere la Camera dal Senato, ma sulla carta l'ignorante sono io. Amen.

Francesca Luciani

Sarebbe bello poter magari intraprendere un corso serale in questi casi...
peccato che nel mio caso, a Milano, il comune non abbia giustamente pensato di chiudere il liceo serale Ghandi... non resta che ricorrere, per chi può permetterselo, ad una scuola privata.
Oppure, come mi ricorda Francesca, finire magari dietro le sbarre, dove hai anche l'opportunità di laurearti se vuoi... Luca

lunedì 1 febbraio 2010

La fine dei "dipendenti a progetto" ? - Luc@



Nella newsletter che ricevo ogni lunedì da Pietro Ichino,
mi sono imbattuto in un link ad una tabella (http://www.pietroichino.it/?p=6989) che riassume delle proposte di legge migliorative sul mondo del lavoro.
Fra i punti è possibile trovarne uno molto interessante:
l'utilizzo per i contratti a progetto (co.co.co e co.co.pro) nonché partite iva in condizione di
monocommittenza) per importi solo sopra i 40.000.

Al di la del fatto che è una proposta di legge,
si può essere in parte o meno sugli importi,
l'approvazione di un decreto simile decreterebbe,
nel bene e nel male, la fine dei "dipendenti a progetto",
ovvero l'uso dei contratti a progetto per far svolgere
ai lavoratori l'attività di "dipendenti" corrispondendogli però circa un terzo dei contributi , nessuna tredicesima o eventuale quattordicesima. ticket etc etc.

Sarebbe interessante seguire il percorso di questo decreto...